MOLTO DI PIÙ CHE UN CANTO

DI LUIGI E FRANCESCO OLIVETO

 

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Verso la metà del Novecento il poeta Alfonso Gatto scrisse che Siena appariva «antica ma mai remota», intendendo dire come il passato della città interagisse – senza discontinuità alcuna – con ogni oggi. Nonostante gli spaesamenti della globalizzazione, Siena, anche al debutto del nuovo secolo, sembra resistere a questo proprio modo d’essere. Continua così la sua ‘leggenda’ che indifferentemente sa coniugarsi al passato e al tempo presente. Ciò accade in ragione di un forte senso identitario insito nella città, di un orgoglio di appartenenza che nel Palio trova la più solenne e appassionata manifestazione. Ad aver formato un siffatto ‘sentire comune’, hanno contribuito, lungo gli anni, diversi fattori: le vicende storiche, i personaggi, l’arte, le contrade, la religione (quella soprannaturale e quella laica professata in una salda coscienza civica); e persino l’estetica, la forma stessa della città che induce al bello e alla perfezione. È la consapevolezza di un patrimonio condiviso che ha saputo darsi anche certe maniere per essere trasmesso, ha creato una cifra narrativa, un vocabolario, una grammatica dei sentimenti, circostanze e luoghi privilegiati. Ebbene, a tali modalità è da ascrivere anche la tradizione del cantare insieme in contrada. Almeno da un secolo a questa parte è andato dunque formandosi una sorta di canzoniere popolare ‘in uso’ nelle diciassette contrade di Siena, che raccoglie canzoni di variegata ascendenza e che i contradaioli hanno fatto proprie, fino a chiamare questo repertorio… canti di Siena. Perché tali sono diventati in virtù di ciò che evocano, della forza di aggregazione che essi esercitano, ma soprattutto per come quel cantare, ogni volta, smuova e rinnovi un mix di emozioni dove vanno a con/fondersi storie personali e collettive, affetti di singoli e di intere comunità, il vanto di un passato che i viventi di oggi si ritrovano a impersonare e a tramandare. È allora interessante vedere (anzi, sentire) che cosa viene cantato, i temi di quelle canzoni e come tale repertorio sia andato costituendosi. Potremmo partire da quei testi che testimoniano, innanzitutto, il gusto per una lingua arcaica e cólta (del resto così è in larga misura per tutta la poesia popolare  toscana) direttamente mutuata dalla letteratura ‘alta’. Laddove gli uccelli sono «augelli», un destino infame diventa «sorte crudele e ria», la donna amata «parea un angelo» e la morte vedrà lei «di bruno vestita». Così come vi è rintracciabile un lessico caratteristico dei libretti d’opera, delle romanze, della canzone italiana delle origini. Ecco, allora, che la gioventù è rimpianta nei suoi «palpiti»; una serenata è rivolta a colei che, noncurante, «dorme fra morbide piume» mentre «il mio letto è di ruvidi sassi»; e ancora sorge la supplica: «ascolta i miei lamenti / pure gli affetti miei / più viver non potrei / senza il tuo grande amor». È questo il repertorio che discende da stilemi ottocenteschi e dei primi decenni del Novecento.

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Frequente è il binomio amore/morte, il tema del distacco, del rimpianto, di un fato malvagio.
Sentimenti trascritti su pentagrammi di una afflizione indicibile, ma che proprio in quelle meste melodie cercavano consolazione, sublimavano disagi, elaboravano lutti. In una sua intensa pagina lo scrittore senese Federigo Tozzi racconta di  ascoltare i canti che gli giungono da un rione della città e coglie, giustappunto, lo struggimento di «quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d’una stanchezza tanto dolce!». Difficile sarebbe stabilire attraverso quali situazioni, eventi, relazioni umane e interscambi si sia composto questo ‘canzoniere senese’ (tramandato oralmente e, perciò, continuamente rivisitato, arricchito ma anche depauperato nel corso del tempo) che mette insieme canzoni d’amore, canti della tradizione anarchica (come Sante Caserio e Son cieco), stornelli, rispetti e classici del folclore toscano (quali Un bel giorno andando in Francia e Maremma amara), spassose (talvolta triviali) canzoncine giocate sul doppio senso (vedasi Mia bella Venere), fino a brani della musica pop italiana degli anni Cinquanta del secolo scorso (è il caso di Buon anno, vincitrice nel 1956 della trasmissione televisiva Canzonissima, che all’epoca si chiamava Le canzoni della fortuna). Salvo qualche  eccezione, risulta impossibile risalire ad autori e luoghi d’origine. Possono, talvolta, essere fatte delle supposizioni. Ad esempio per certe canzoni che, pur in versioni diverse, si riscontrano anche nel Nord-Italia (tra queste Fiocca la neve, Son l’undici di notte) e che probabilmente sono entrate nel repertorio senese per voce di uomini ritornati (fortuna loro!) a Siena dopo aver combattuto nella Guerra del 1915-18. Sono bensì sicure le origini di un repertorio ‘moderno’, dovuto all’estro e alla sensibilità di due autori senesi: Enzo Bini detto il Gessaiolo e Mario Mariotti. Bini produce canzoni che per temi e linguaggio possono dirsi ancora nel solco “romantico”. Le composizioni di Mariotti presentano, invece, versi (e musica) che lo assimilano allo stile della moderna ‘canzone d’autore’. Inoltre con lui si è inaugurato un genere (tutt’oggi ha degli emuli) e creato un’equazione sentimentale: amare Siena è amare tout court.
Merita infine osservare che, per coloro che ne sono interpreti, non è poi così importante il ‘quel che si canta’, ma il fatto stesso di ritrovarsi a cantare. Allorché, intonando un repertorio a tutti noto, anche gli assenti paiono tornare, gli affetti  dichiararsi, i sentimenti giungere a raccolta.

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